Personaggi principali

  • Pitagora – (circa 580 – 495 a.C.) – filosofo e matematico. Fondò a Crotone una delle più importanti scuole di pensiero dell’umanità: la Scuola Pitagorica.
  • Ippaso di Metaponto – Vissuto attorno al 500 a.C. fu il discepolo di maggior rilievo di Pitagora, scopritore dei numeri irrazionali.
  • Mathematikoi, gli allievi della Scuola Pitagorica

Luogo

Italia Meridionale 
Tra Metaponto e Sibari 

Periodo
Circa 500 a.C.

Euro, il vento impetuoso chiamato per la sua forza lo sbuffo di Zeus, sferzava con raffiche rabbiose cariche di polvere la figura che camminava zoppicando lungo la strada che da Sibari conduceva a Metaponto.  La causa della sua strana andatura era la striscia di cuoio che fermava il suo sandalo, che aveva scelto per rompersi di netto proprio il giorno nel quale il giovane Ippaso doveva fuggire il più in fretta possibile. La strada, poco più di un sentiero largo a sufficienza per consentire il transito dei carri, era, a causa delle forti piogge dei giorni precedenti, ingombra di detriti, dolorosamente appuntiti. Il sandalo malfermo non proteggeva il piede che urtava di continuo le taglienti pietre della strada e sanguinava abbondantemente. Il giovane si vide costretto a rallentare ulteriormente la sua andatura.

Non era riuscito a lasciare Sibari senza farsi notare. Era certo che le guardie alla porta nord della città lo avessero riconosciuto. Era sufficiente che i suoi inseguitori si rivolgessero a loro e avrebbero avuto la certezza che stava fuggendo verso Metaponto; così, rallentato dal piede ferito, loro lo avrebbero facilmente raggiunto prima che potesse arrivare a destinazione.

Ormai tutti lo conoscevano, e non per essere stato il discepolo più brillante e promettente del Maestro, ma per le maldicenze diffuse dai suoi compagni di studio della scuola di Crotone, la Casa delle Muse; tutti i suoi nemici appartenevano alla cerchia dei discepoli più vicini al Maestro, quella dei mathematikoi, gli unici ammessi alla sua presenza, che erano vincolati all’obbligo del segreto sugli insegnamenti ricevuti. La nomea di “traditore del Maestro” si era diffusa di piazza in piazza, di corte in corte, fino a raggiungere tutti gli abitanti della striscia costiera che da Crotone giunge a Metaponto passando per Sibari.

Una cosa lo tormentava più di ogni altra: non poteva essere il Maestro ad avercela con lui, il discepolo prediletto; in fondo aveva semplicemente applicato i principi matematici del Maestro a una semplice realtà geometrica; che poi tutto ciò smontasse, almeno in apparenza, la formulazione corrente del tutto è numero non poteva certo essergli contestato come colpa o, peggio, tradimento.

Come spesso accade, la conoscenza, anziché costituire un binario di crescita comune, si stava rivelando, nelle mani dei meno capaci, uno strumento che garantiva diritti e privilegi, trasformando la conoscenza da elevazione dell’anima a separatore tra coloro che sanno (o credono di sapere) e la massa che non sa.

Ippaso si era quindi convinto che il pericolo per la sua vita non derivava dal Maestro, ma dai suoi compagni di studi alla Casa delle Muse, che vedevano il prestigio della loro condizione privilegiata, basata su certezze che non dovevano crollare, messo a rischio da una nuova formulazione matematica che implicava di rivedere e aggiornare le basi stesse del pensiero matematico dell’epoca.

La sua teoria, infatti, non intaccava certamente il genio del Maestro, ma avrebbe oscurato il prestigio dei seguaci, sempre pronti a nascondere la propria inadeguatezza dietro un autòs ephé, ossia l’ha detto proprio lui, che troncava con facilità qualsiasi discussione.

Ippaso doveva assolutamente parlare col Maestro, ragionare insieme a lui sulle nuove prospettive aperte da quanto aveva scoperto, ampliare la definizione di tutto è numero, superare i pregiudizi con la conoscenza. Per questa ragione si era avviato verso Metaponto, dove il Maestro si era stabilito dopo la sconfitta di Sibari nella guerra contro Crotone.

Il piede gli doleva sempre più, Metaponto distava da Sibari non meno di due giorni di cammino, ma in quelle condizioni, digiuno e con un piede sanguinante, non poteva farcela. Stava per cedere, quando passò una fila di carri diretti al mercato di Metaponto.

Un mercante gli offrì un passaggio sul suo carro al prezzo di alcune monete del luogo, chiamate statere. Non era certo a buon mercato, ma con quel mezzo di trasporto Ippaso era al sicuro dai suoi inseguitori, tanto più che la strada, in una gola molto stretta, attraversava un grande campo di fave e i mathematikoi, spingendo all’estremo il disprezzo che nutrivano per questi legumi, non si sarebbero azzardati ad attraversarlo, ma lo avrebbero aggirato per un sentiero assai più lungo e tortuoso.

Ippaso accettò subito. Il mercante astutamente insistette per essere pagato con statere crotonesi, coniate con l’immagine del tripode, e quindi impose un cambio assai sfavorevole alla moneta di Metaponto con l’emblema della spiga. Ippaso pagò quanto gli si chiedeva, salì sul carro al riparo dal vento e ripensò alla sua assurda storia intanto che, aiutato dalla moglie del mercante, si fasciava il piede e riparava il sandalo.

Tutto è numero, il Maestro lo aveva ripetuto un’infinità di volte. A partire dall’uno, il numero origine, il punto, la perfezione; seguivano poi i numeri dispari e i numeri pari. Il numero uno non era né pari né dispari, bensì parimpari perché sommato a un numero pari lo trasforma in dispari e sommato a uno dispari lo trasforma in pari. Tutto ciò che è finito è perfetto, perché descrivibile con un numero, quindi è misurabile, perciò lo si può conoscere; invece ciò che è infinito, o meglio, indefinito, non essendo misurabile è imperfetto.

Su queste basi si fondava l’insegnamento della scuola pitagorica. Il concetto che univa aritmetica e geometria era racchiuso nella tetraktys, la sacra figura sulla quale ogni discepolo doveva giurare quando iniziava gli studi.

Ippaso ripensò ancora una volta a quel giorno che in un attimo lo aveva trasformato da discepolo prediletto a discepolo maledetto. E non riusciva a chiamare sfortunato quel giorno, perché era il giorno nel quale aveva avuto l’intuizione più geniale di tutta la sua carriera tra i mathematikoi.

Eppure non aveva fatto altro che utilizzare il teorema del Maestro, cioè il quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo è pari alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, e applicarlo per calcolare la lunghezza della diagonale di un quadrato di lato pari a uno. La somma dei due quadrati dei due lati di lunghezza unitaria è evidentemente pari a due, e quel maledetto numero che moltiplicato per sé stesso dà come risultato due non era un numero contemplato dall’aritmogeometria del Maestro. Perché era così grave? Perché la radice quadrata di due ha un numero infinito di decimali che non segue nessuno schema ripetitivo e quindi non è di fatto misurabile. Qui sta il punto: se qualcosa non è misurabile, non è possibile arrivare a conoscerlo, quindi non si può più dire che tutto sia numero.

Ippaso aveva scoperto l’esistenza dei numeri irrazionali, cioè non consoni con la «ragione» pitagorica. Doveva parlare con lui. Questo era lo scopo del suo viaggio: un confronto diretto con Pitagora. Era certo di riuscire a convincerlo ad approfondire senza pregiudizi i numeri irrazionali e giungere cosi a una nuova e più completa formulazione del concetto di tutto è numero.

La moglie del mercante, furba quanto curiosa, aveva sentito parlare di un discepolo che aveva tradito il Maestro. Disse al marito, in un modo non proprio pacato, che si era fatto imbrogliare, che non voleva fuggiaschi sul loro carro e, cosa più importante, che quanto aveva pattuito era una miseria per trasportare un ricercato.

Il mercante, travolto dalla piena di lamentele, fermò il carro proprio di fronte all’abitazione di Pitagora lasciando così intendere al passeggero che aveva scoperto la sua identità e gli chiese altre statere d’argento come compenso per il suo silenzio. Era un prezzo molto alto, ma Ippaso pagò senza discutere.

In preda a una grande emozione Ippaso si avvicinò al cancello di ingresso che era aperto. Un breve corridoio portava in un cortile rettangolare; la porta dall’altro lato del cortile era quella dell’andron, la stanza degli uomini. Si avvicinò all’apertura e vide Pitagora, seduto e immerso in meditazione. Non lo incontrava da prima della guerra tra Crotone e Sibari.

Il giovane si fermò sulla soglia, in totale silenzio. Sapeva bene che il Maestro non amava le visite non annunciate; anzi non amava le visite in generale, specialmente quando era assorto nei suoi studi matematici.

Pitagora alzò gli occhi, non fece alcuno sforzo per nascondere la propria irritazione. Stette a lungo in silenzio, abbassò più volte gli occhi verso la tavoletta che teneva in mano come aspettando che il suo ospite se ne andasse senza bisogno di spendere parole inutili; infine, dopo un’ultima lunga riflessione a occhi chiusi, ruppe il silenzio.

– Ippaso, non so dire se tu sia più coraggioso o più sciocco a venire in mia presenza dopo quello che, mi si dice, tu abbia combinato …

– Le malelingue, Maestro …

– Interrompere il tuo Maestro mentre sta parlando, ti porta a questo la tua cosiddetta scoperta?

Il giovane chinò il capo e tacque. Pitagora proseguì.

– Non sono uno sciocco, ho studiato la tua proposizione e concordo sul fatto che possa avere un senso geometrico, mentre è assai più complesso il senso aritmetico e ancora più complesso il senso filosofico.

– Parla o Maestro, ti ascolto.

– Vi ho insegnato in tutti questi anni che il numero è la sostanza delle cose, è l’archè, il principio, l’elemento di cui tutte le cose sono costituite. Il numero è un insieme di unità e l’unità è identificata al punto geometrico. La scienza suprema è l’aritmogeometria: in essa i numeri sono figure geometriche e il loro insieme esprime l’ordinamento del mondo, il cosmo, ovvero il luogo dove gli opposti che caratterizzano l’esistenza trovano il modo di armonizzarsi.

Una nuova pausa di silenzio. Riprese.

– La vera natura del mondo consiste in un ordinamento geometrico esprimibile in numeri e quindi misurabile e, in quanto tale, conoscibile. La realtà vede la contrapposizione tra i due principi di limite e illimite, dispari e pari, retto e curvo. Ciò che è limitato e compiuto è perfetto perché definibile, ciò che illimitato è imperfetto, essendo indefinito e quindi incompiuto. I numeri secondo ragione, cioè razionali, sono tali perché rispondono a leggi precise, quelle stabilite dai numeri interi e dai numeri derivanti da frazioni, cioè dal rapporto tra due numeri interi. I tuoi numeri non secondo la ragione o irrazionali come li chiami tu, non hanno regola, quindi non sono misurabili. Se diciamo che tutto è numero è perché mediante i numeri è possibile spiegare e descrivere e raggiungere la conoscenza di ogni cosa: il movimento degli astri, il succedersi delle stagioni, le armonie musicali; allora dobbiamo intendere che anche la vita degli uomini è un numero. Se ammettiamo l’infinito senza regole, come nei tuoi numeri, ammettiamo la possibilità che anche la vita sia infinita e stiamo accreditando al nostro corpo una prerogativa che sarà della nostra anima se e solo se saremo in grado di elevare il nostro spirito. Oppure ci appropriamo di un privilegio che è prerogativa degli dei, e mi auguro che tu non ti senta un dio, perché in questo caso la loro ira è assai peggiore di quella degli uomini, perché non si limita a infliggere pene al corpo, che sono temporanee perché prima o poi muore, ma infligge pene molto più crudeli all’anima, che non muore in eterno. Pensa a Sisifo che, per aver ingannato Zeus, fu condannato per l’eternità a spingere un macigno sulla cima di una montagna, dalla quale il masso rotola a valle e la fatica ricomincia; dimentichi forse quanti altri soffrono e per sempre soffriranno per avere sfidato gli dei? E tu non ti rendi conto che con i tuoi numeri non di ragione sfidi l’infinito e vuoi darne misura? Vuoi tu misurare gli dei?

– Comprendo la tua preoccupazione, Maestro, e la condivido. Io, come tutti i tuoi allievi, inclusi quanti mi stanno inseguendo per farmi del male, ho giurato sulla tetraktys, ma io ho giurato su un metodo di conoscenza, non su un limite, un freno alla comprensione. Tu mi hai insegnato che per raggiungere la purificazione dell’anima è necessaria anche la sapienza e in particolare, la conoscenza della matematica e della geometria. Penso che tu sia stato male informato sui miei studi. I numeri che tu chiami non di ragione  e che io chiamo irrazionali danno una risposta laddove i numeri cosiddetti di ragione non possono arrivare. Non è mia intenzione misurare gli dei, voglio purificare l’anima attraverso la conoscenza per capire meglio gli dei e quindi per meglio servirli; ma non posso farlo se uno strumento per ampliare il sapere non lo posso usare per il pregiudizio di persone mediocri. Nella musica la bellezza del suono deriva dall’armonia dei rapporti tra i numeri di ragione, ma nella geometria è la proporzione divina che ha bisogno di strumenti più completi. Hai viaggiato a lungo tra i Caldei e gli Egizi, hai certamente sentito parlare delle proporzioni del bello, la divina aurea proporzione. La bellezza è dono degli dei agli uomini, che senso avrebbe non poterla misurare? Allora sì che la proposizione tutto è numero perderebbe di significato!

– Se quanto dici corrisponde al vero, come ti spieghi il rancore degli altri allievi nei tuoi confronti? L’accusa di tradimento quando c’è di mezzo un giuramento è una cosa assai grave. Sai che la pena prevista è la morte?

– Lo so, Maestro. L’invidia di un tempo si è trasformata in odio verso chi, a loro dire, rimette in gioco la conoscenza, minando lo stato di privilegio che si sono auto costruiti e che cercano di difendere imbrigliando proprio il sapere, senza rendersi conto che una scuola che nega la conoscenza non può che implodere in se stessa ed è destinata a finire.

Fece una pausa in attesa delle parole di Pitagora, che aprì gli occhi e guardò intensamente il suo discepolo, le dita unite nei polpastrelli, i due pollici sotto il labbro inferiore, i due indici appoggiati alla punta del naso.

Il Maestro non disse nulla, rimase assorto in meditazione.

All’improvviso si udirono voci concitate venire dall’ingresso e una dozzina di mathematikoi inferociti si ammassò sulla soglia dell’andron; più volte e a più voci chiesero al Maestro il consenso a portare via Ippaso, senza ricevere risposta: Pitagora restava immobile, con gli occhi chiusi, meditando.

Il silenzio fu interpretato dai discepoli come tacita approvazione, quindi, afferrato Ippaso, lo trascinarono fuori dalla casa, lo legarono, lo misero su un carretto e si diressero verso il mare.

Pitagora riaprì gli occhi diverso tempo dopo, non vide Ippaso e capì cosa era successo. Pensò ai suoi discepoli, così ambiziosi e pieni solo di sé, che rifiutavano il conoscere per timore di perdere i loro privilegi.

Si sentì vecchio, rabbrividì e richiuse gli occhi. Sapeva che da quel momento la sua scuola stava respingendo la conoscenza e questo ne determinava inesorabilmente la fine.

Legato mani e piedi e sbatacchiato contro le pareti del carretto che sobbalzava seguendo senza sconti lo stato povero di manutenzione della strada, Ippaso, conscio di non avere speranza di vedere l’indomani, decise di spendere il tempo che gli rimaneva cercando di interpretare il silenzio del Maestro. Era sicuro che il silenzio fosse la sua risposta e che Pitagora tenesse lui, Ippaso di Metaponto, in tale considerazione da ritenerlo capace di interpretare la risposta nascosta nel suo tacere.

Il carretto si fermò, gli misero un cappuccio e lo afferrarono per gettarlo in una barca.

Che gli rimanesse poco tempo non gli importava, nessuno sa quanto tempo ha da vivere e, illudendosi che sia senza fine, lo spreca; lui aveva il “privilegio” di poter misurare la vita che gli restava e voleva mettere a frutto ogni secondo del tempo che gli era donato. Questo lo meravigliava: pensava al poco tempo che gli rimaneva come un dono dei suoi aguzzini, senza dar peso al tempo che avrebbe potuto vivere e che gli stavano togliendo.

Nella testa di Ippaso, immersa nel buio del cappuccio, le idee cominciavano a chiarirsi. I suoi compagni di studio avevano il terrore di veder scardinati i loro privilegi senza rendersi conto che, per uno studioso, fermare il processo di conoscenza è la peggiore delle sconfitte.

Non c’era più un posto per lui nella scuola del Maestro perché ormai non c’era più scuola da quando gli studenti avevano negato lo sviluppo della conoscenza , e non c’era un posto per lui fuori dalla scuola, lontano dal confronto con Pitagora. Tuttavia Ippaso era sereno, infatti era certo che nulla poteva cancellare la sua scoperta: ormai il cammino era tracciato e i numeri “non di ragione” avrebbero avuto ragione dell’ignoranza.

Graziano Chiesa

ll racconto tutto è numero?” è una rivisitazione del Prologo al libro “il numero maledetto” dello stesso autore, in vendita sul sito www.prismamagazine.it

Le parole chiave

  • La conoscenza (è)/(non può essere) ragione di privilegio di casta
  • Per uno studioso, fermare il processo di conoscenza è (il destino inevitabile)/(la peggiore delle sconfitte) /(il raggiungimento dei suoi obiettivi)
  • Superare i pregiudizi con la (prepotenza)/(conoscenza)

NOTE:

1 La figura della tetraktys era rappresentata come un triangolo equilatero costituito da quattro punti per ogni lato, in totale dieci punti. Il dieci era considerato il numero perfetto, che rappresenta la somma di tutte le dimensioni: un punto, che non ha dimensioni; due punti, che generano una linea a una dimensione; tre punti, che generano un triangolo in due dimensioni e quattro punti, che generano un tetraedro nelle tre dimensioni. La tetraktys univa quindi aritmetica e geometria nell’aritmogeometria.

2  Proporzione divina o sezione aurea o numero di Fidia o numero aureo: nell’ambito delle arti figurative e della matematica, denota il numero irrazionale 1,6180… ottenuto effettuando il rapporto fra due segmenti di lunghezza disuguale, dove il segmento totale sta al segmento più lungo come quest’ultimo sta al segmento più corto.